Il
Sa-Nesert - Lo Stagno-di-Fuoco
La tenebra del Mondo-di-Sotto, però, era assai
diversa da quella del Mondo-di-Sopra. Lassù solo il gatto sapeva guardare nel
buio. Lo sciacallo e forse il leone. Di sotto, invece, ci vedeva bene anche lui
e la prima cosa che vide fu la fiammeggiante faccia di Seqed-Nherit, Colui che
Respinge la Fiamma, Guardiano della sebhet della seconda Arrit.
Era d’aspetto così spaventevole e truce, che il
ragazzo indietreggiò verso il tunnel appena lasciato.
Alto e massiccio, il torso nudo e un perizoma
di colore fulvo come la criniera che trionfava superba sopra la testa leonina,
il Demone incuteva veramente terrore. Con entrambe le mani reggeva coltelli,
agitandoli minacciosamente in direzione del ragazzo.Djoser era davvero terrorizzato. Non solo. Nel lasciare il Ren, il nome segreto, sulla Soglia della prima Arrit, si era sentito triste e vuoto come un nido senza piccoli. Orfano di una parte di sé. Con sgomento prese coscienza che un altro dei suoi “principi costitutivi” stava per lasciarlo: l’Ib, il Cuore. La “coscienza”, come gli aveva spiegato suo padre.
L’afferrò l’angoscia, ma non permise che quella sensazione riuscisse a sopraffarlo. Con gesto rapido tirò nuovamente fuori della sacca appesa in spalla l’amuleto Ib e prese a recitare:
“Che il cuore resti con me nella Casa del Cuore.
Che la Porta della Sala possa spalancarsi
Che il mio Cuore possa procedere in pace.”
L’Araldo
si fermò. Dietro di lui c’erano
Portiere e Guardiano, che al ragazzo parvero Demoni di una specie
ancora peggiore di quelli che aveva affrontato e vinto alla prima barriera.
Come il compagno, anche costoro erano a torso
nudo e con i fianchi coperti da perizomi. In mano brandivano mannaie e coltelli
dalle affilatissime lame. Il primo esibiva una testa d’Ariete, ma il secondo
pareva una creatura quasi umana. La figura era umana. Soltanto quella, però,
poiché la natura che emergeva dai suoi occhi, era puramente demoniaca. Rossi e profondi, quegli occhi
fiammeggiavano più delle vampe della sua torcia.
Djoser li fronteggiò tutti e tre. Prima fece un
lungo respiro, poi si affrettò a frugare nella mente alla ricerca delle Parole
Sacre che gli avrebbero dato potere su di loro. Sapeva che, possedendo i loro
nomi e usando la giusta intonazione della voce, li avrebbe convinti, anzi,
costretti, ad aprirgli quella porta.
“Salute a voi. - cominciò - Saluto l’Araldo
della Porta di questa Sala. Used, Colui-che-Consuma, è il suo nome segreto. E
saluto te, Guardiano. Seqed-Nherit, Colui-che-Respinge-la -Fiamma è il tuo nome
segreto. Saluto anche Dun-hat, Colui-che-Muove-la-Faccia, Portiere di questa
Sala.” “Chi sei?” chiese l’Araldo facendosi avanti..
Solo due parole. Due sbuffi di fuoco che saettarono fuori della bocca e che Djoser evitò scansandosi di un passo sul fianco.
“Djoser. Colui-che-Esce-dal-Papiro è il mio
nome segreto.” rispose.
“Dove sei stato?”
“A Khemennu.”
“Che cosa hai appreso in quella città?”
“Piccole cose.”
“E’ sempre da piccole cose - tuonò l’Araldo - che si apprendono tutte le altre.”
Djoser, pur molto impressionato, continuò, puntando avanti a sé il braccio.
“Che la sua Parola abbia ricondotto al Supremo l’Udjat, l’Occhio Divino inviato in missione. - rispose d’un fiato - Si dice anche - aggiunse dopo aver ripreso fiato - che al suo ritorno, avendo trovato un altro Occhio a sostituirlo, sia andato su tutte le furie e che per placare la sua collera, il Supremo dovette trasformarlo nel Cobra con cui si cinge la fronte.”
“Entrare da questa Porta ed attraversare la Sala.” rispose.
“Che cosa hai ancora da dire?”
La domanda colse Djoser impreparato; non aveva altre risposte. Doveva cercarne altre? Cercarle nella memoria? Si portò la sinistra sul sopracciglio e strizzò gli occhi, nel vezzo infantile di mettere a fuoco la memoria, ma davvero non ne aveva più. Non bastava conoscere i loro nomi e averli pronunciati con la “giusta” intonazione per ottenere il lasciapassare?
“Questo Demone vuole tendermi una trappola con le sue ciance. Vuole respingermi nuovamente in quel sudario di fango. Se non ho pronunciato bene i loro nomi perché non mi hanno ancora incenerito? – pensò, ma si sentì avvampare - Questa creatura infernale non starà già facendo arrosto il povero Djoser? Djoser non è quel passerotto implume che il mio amico Osor ha portato per la prima volta dal barbiere! Io non mi lascio mettere in trappola. Io sono provvisto di magia.”
Era terrorizzato, ma riuscì a mascherare le paure e ordinò:
“Sgombra il mio cammino. Io conosco il tuo nome segreto. E’ Colui-che-Consuma. Lascia il passo a questo pellegrino che...”
Sull’architrave della Porta c’erano disegnate due colonne che incorniciavano una fila di figure e sul pannello era raffigurato un uccello. Djoser riconobbe nelle prime il segno dello Zed e nel secondo la figura del Sapiente Thot, Protettore di quella Arrit.
“Conosco il nome del Dio che ti osserva e ti comanda. Thot è...”
“Dove sei stato?”
“A Khemennu.”
“Che cosa hai appreso in quella città?”
“Piccole cose.”
“E’ sempre da piccole cose - tuonò l’Araldo - che si apprendono tutte le altre.”
Djoser, pur molto impressionato, continuò, puntando avanti a sé il braccio.
“Ho appreso di Thot il Lunare, mio e tuo
Signore, Thot che è Parola e Verbo di Ptha il Supremo.”
“Che cosa si dice di Lui?”“Che la sua Parola abbia ricondotto al Supremo l’Udjat, l’Occhio Divino inviato in missione. - rispose d’un fiato - Si dice anche - aggiunse dopo aver ripreso fiato - che al suo ritorno, avendo trovato un altro Occhio a sostituirlo, sia andato su tutte le furie e che per placare la sua collera, il Supremo dovette trasformarlo nel Cobra con cui si cinge la fronte.”
Al riguardo Djoser sapeva molte altre cose.
Sapeva, ad esempio, che l’Udjat, l’Occhio Divino, era così composto:
quello destro, dall’Occhio di Ra, lo stesso che Thot ricondusse al Supremo; quello
sinistro, dall’Occhio di Horo, quello che Seth gettò ai confini del mondo dopo
averlo strappato al contendente durante la Grande Lite. Anche allora era stato
Thot a ritrovarlo nella Tenebra Eterna. Ed era stato ancora Lui a restituirlo a
Horo dopo averne ricomposti i pezzi.
“Che cosa vuoi qui?” domandò ancora l’Araldo.“Entrare da questa Porta ed attraversare la Sala.” rispose.
“Che cosa hai ancora da dire?”
La domanda colse Djoser impreparato; non aveva altre risposte. Doveva cercarne altre? Cercarle nella memoria? Si portò la sinistra sul sopracciglio e strizzò gli occhi, nel vezzo infantile di mettere a fuoco la memoria, ma davvero non ne aveva più. Non bastava conoscere i loro nomi e averli pronunciati con la “giusta” intonazione per ottenere il lasciapassare?
“Questo Demone vuole tendermi una trappola con le sue ciance. Vuole respingermi nuovamente in quel sudario di fango. Se non ho pronunciato bene i loro nomi perché non mi hanno ancora incenerito? – pensò, ma si sentì avvampare - Questa creatura infernale non starà già facendo arrosto il povero Djoser? Djoser non è quel passerotto implume che il mio amico Osor ha portato per la prima volta dal barbiere! Io non mi lascio mettere in trappola. Io sono provvisto di magia.”
Era terrorizzato, ma riuscì a mascherare le paure e ordinò:
“Sgombra il mio cammino. Io conosco il tuo nome segreto. E’ Colui-che-Consuma. Lascia il passo a questo pellegrino che...”
Tornò a recitare le Formule Antiche così come
andava fatto. Non di corsa, ma con la cadenza
esatta e le pause necessarie a rendere efficace quella litania di
parole. Voce modulata e dolce, ma decisa e chiara. Imperiosa.
Guardò in faccia l’Araldo con fermezza e con lo
stesso cipiglio guardò in direzione della Sebkht sprangata a doppio
battente. Sull’architrave della Porta c’erano disegnate due colonne che incorniciavano una fila di figure e sul pannello era raffigurato un uccello. Djoser riconobbe nelle prime il segno dello Zed e nel secondo la figura del Sapiente Thot, Protettore di quella Arrit.
“Conosco il nome del Dio che ti osserva e ti comanda. Thot è...”
Vide la sua Ombra-Shut fermarsi immediatamente. La vide chinarsi sulla sponda di un lago, poi vide una nebbia azzurrognola levarsi dalla superficie delle acque ed inghiottirla.
“Il Sa-nesert, lo Stagno di Fuoco… e ha portato via la mia Ombra.”
Di fronte a lui c’era lo stagno più grande ed esteso mai visto. Ne aveva visti tanti nella sua vita. Lui e l’amico d’infanzia, Sikty, giocavano sempre in quello che si trovava proprio dietro la sua casa e in cui un brutto giorno il suo amichetto era annegato. Da allora sua madre gli aveva vietato di stare vicino alla più piccola delle pozzanghere. Questo che aveva di fronte, però, sembrava davvero infinito, così grande da non riuscire a vederne la sponda sull’altro versante. Si fermò ad osservare; un pò sconcertato. Quel posto era ameno e delizioso. L’atmosfera era bucolica. Assai diversa dalle tenebre angoscianti del Labirinto.
Dalle sponde, un’esplosione di piante e fiori
si protendeva sulle acque; canne e mangrovie ricoprivano gli argini. Ne
riconobbe alcuni: iris e loti, rampicanti. Altri no. Bianchi, rossi, gialli e
blu. Profumi e colori come non n’aveva mai visti nè sentiti in tutta la sua
vita. Canneti di papiri, alla sua destra, frusciavano leggeri. Le Sat,
le Montagne-del-Tramonto, fiammeggiavano alle loro spalle, incendiando il cielo
di un rosso corniola.
Djoser rimase a guardare incantato; l’affanno per la perdita della Shut era quasi scomparso al cospetto di tanta meraviglia.
Improvvisamente la gran distesa di canne, apparentemente immobile ed impenetrabile, si aprì sotto i suoi occhi. I pennacchi di papiro si separarono e due esseri luminosi fecero la loro comparsa. Avanzarono fino al ciglio del Lago dove si fermarono per rinfrescarsi.
Djoser sentì uno schianto dentro il petto:
aveva riconosciuto i suoi genitori. Più precisamente, gli Akh, i Corpi
Gloriosi, di Pthahotep e di sua moglie Nsitaten. Incantato, sopraffatto
dall’emozione, Djoser fissava ammutolito i genitori adottivi. I loro corpi
erano circondati da un’aura luminosa, i volti erano raggianti e gli sguardi
colmi di splendore; anche la polvere che copriva le loro parrucche e i sandali
sembrava d’oro. Perfino i loro Geni brillavano di quella gloriosa luminosità.
“Qualità”, amava chiamarli il caro maestro
Pthaotep, quando ancora era in vita e gli spiegava che ogni uomo era
indissolubilmente legato ad almeno quattordici di loro. Quattordici Geni che
completavano l’essenza umana di un individuo: la forza, la potenza, la volontà,
il carattere, la stabilità, la coscienza…
In quel momento non ricordava gli altri, ma era certo che fossero
quattordici, come assicurava suo padre. Troppo emozionato!
Fu Nsitaten, più bella, più giovane, più
splendente che mai, ad accorgersi per prima della sua presenza. Il volto
coperto di lacrime e le braccia spalancate, sua madre corse verso di lui; le
sue prime parole furono:
“Djoser,
bambino mio, fatti guardare…
Piccolo mio, ma come sei
sciupato. Non ti danno da mangiare a sufficienza, dove vivi?”
Djoser sorrise: solo una madre poteva notare
quello, tra i tanti cambiamenti di un bambino che arriva all’adolescenza. Non
il fatto che era diventato tanto più alto, che gli erano spuntati i primi
peluzzi sul mento e sotto il naso o che le spalle s’erano irrobustite; suo
padre sorrideva indulgente
“Sto bene, madre.” la rassicurò, ma rabbrividì, come attraversato da un soffio d’aria fresca quando, nel tentativo di abbracciarla, le sue braccia racchiusero aria luminosa. Arretrò di un passo, quasi spaventato, con l’animo in tumulto e i luccicori agli occhi.
“Il corpo appartiene alla Terra e lo spirito al
Cielo! - sospirò l’architetto Pthahotep alle sue spalle, poi cercò di
consolarlo. -Tua madre ha già preparato un posto pieno di
delizie per quando ci raggiungerai
nei Sekhet Jaru per restare sempre con noi.”“Sto bene, madre.” la rassicurò, ma rabbrividì, come attraversato da un soffio d’aria fresca quando, nel tentativo di abbracciarla, le sue braccia racchiusero aria luminosa. Arretrò di un passo, quasi spaventato, con l’animo in tumulto e i luccicori agli occhi.
Se il ragazzo sembrò un pò confortato dalla
promessa, non altrettanto si mostrò Nsitaten.
“Questo significa che il nostro figliolo non
resterà con noi?”La udì domandare Djoser con affanno improvviso.
“Lo sai, Nsitaten. - la voce di Pthahotep era suadente, come si fa con un bambino caparbio o uno studente ribelle - Lo sai che non può restare con noi. Te l’ho spiegato prima di lasciare i Sekhet Jaru. Te l’ho detto che era solo per farti rivedere tuo figlio che abbiamo intrapreso questo viaggio. Tu non puoi tenerlo con te.”
“Me lo hai spiegato, marito mio. Me lo hai spiegato, ma una madre, come può separarsi per la seconda volta da suo figlio!”
“Madre!...” proruppe Djoser, piangendo a dirotto.
“Guarda, donna, cosa hai fatto! Hai fatto piangere tuo figlio!”
Per la seconda volta Djoser tese le braccia verso la madre. Ma questa volta, inspiegabilmente, le sue braccia non accolsero solamente aria; l’illusione fu di stringere un morbido cuscino di piume. Piume soffici e setose. Come quelle del piccolo cigno che con l’amichetto Sikty un giorno aveva trovato ferito sulla riva dello stagno dietro casa.
“Ma…” riuscì soltanto a balbettare, stringendola così forte a sè da farla gemere. Quando si staccò da lei, suo padre aveva ancora sulla faccia quell’espressione di bonaria indulgenza di quando impartiva i rudimenti del sapere ai suoi piccoli scolari.
“Non è stato facile neanche per noi. - spiegò - Soprattutto nei primi tempi. Per prendere la mano di tua madre, nei Sekhet Jaru, dove la trovai ad attendermi quando vi arrivai, passarono giorni.”
“Com’è che siete qui? Non credevo che questo posto potesse essere frequentato da Anime-Akh. Credevo fosse un posto di supplizi.”
“Ai Giusti è permesso percorrere questi luoghi senza averne danno. Tua madre era stanca ed ha voluto fermarsi a riposare e dissetarsi con quest’acqua.”
“Lo sai, figlio mio, che non ho mai avuto una costituzione fisica particolarmente robusta. - disse Nsitaten con un sorriso che la rese ancora più luminosa e che illuminò ogni cosa intorno a lei - Anche quando vivevo nel Mondo di Sopra. Per di più - aggiunse in tono schivo - la mia ala sinistra diventa sempre meno resistente nei lunghi percorsi.”
“La... la tua ... ala sinistra?!...” balbettò il ragazzo.
“Di cigno bianco.” spiegò Nsitaten avvolgendolo in uno sguardo che era una carezza.
“E’ la forma che tua madre preferisce assumere per tornare nel Mondo-dei-Viventi e venire in sogno da te.” spiegò Pthahotep.
“... per venire in sogno da me...” fece eco Djoser emozionato.
“Da quando ti ha lasciato la prima volta, tua
madre ha cercato di venire da te ogni giorno.- spiegò suo padre con un sorriso - Ogni volta che le tue palpebre si
abbassano, lei prova a raggiungerti. Non è così, vecchia mia?”
“E’ proprio così! Sì! E’ proprio così,
soprattutto da quando anche tu sei arrivato qui, marito mio.”“Volete dire che venite spesso a farmi visita? Volete dire che anche adesso lo state facendo e che la mamma si è fermata a riposare qui, su questa riva?”
“E’ quello che ho detto.”
“Ma dove sono Fiamme e Fuoco? Credevo di dover affrontare le Fiamme di questo Lago. Dove sono Fiamme e Fuoco?”
“Si ritirano. - rispose con semplicità suo padre - Si ritirano quando si avvicinano i Giusti e le Anime Gloriose. Ma... Guarda. Guarda laggiù, figlio mio. Guarda cosa accade alle Anime Perse. Guarda. Guarda quelle De-lamdz. Quelle Ombre Malvagie non hanno superato la prova della Sacra-Bilancia: il loro cuore è risultato più pesante della Sacra-Piuma di Maat. Se la Bestia-Ammit non li ha divorati è perché sono riuscite sfuggire alla pena e vagano nella Duat nel tentativo di tornare nel Mondo-di-Sopra.”
Djoser girò il capo nella direzione indicata dal padre.
“La mia Shut, padre, la mia Ombra è fuggita via ed io non so dove sia andata. Temo possa finire sotto le mannaie dei Guardiani.”
“Oh, no! - sorrise rassicurante suo padre - Non temere per la tua
Ombra e neppure devi nutrire timori per le altre tue Identità. Non pensare a quello che ti sei lasciato alle spalle, ma affronta con spirito forte quello che ti sta davanti e... non badare neppure a quegli spiriti persi. Ognuno ha la sorte che si merita.”
Quasi costretto da quelle parole, Djoser tornò a guardare in direzione del Lago. Tremenda, la scena che stava materializzandosi sotto i suoi occhi.
Una nuvola scura, ondeggiante e rumorosa, si avvicinava alle sponde del Lago. Una moltitudine barcollante, polverosa, stracciata e ricoperta di sterco di pipistrelli ed altri uccelli immondi. Marciava lenta ma inarrestabile. Un odore insopportabile emanava dai loro corpi. Di carne marcia. Le loro urla parevano provenire da gole cavernose e le parole, sulle bocche distorte, erano bestemmie..
“Schifosi figli di una scrofa immonda, buoni neppure a governare...” e qui facevano cadere bestemmie in direzione di un gruppo di Sorveglianti, Demoni non meno rivoltanti di loro, che rispondevano alle provocazioni con altrettante bestemmie ed oscenità. Trattandosi assolutamente da pari.
“Sembrano compagni di una stessa demoniaca famiglia.”
Il ragazzo cercò invano di turarsi le orecchie
con entrambe le mani. Riconobbe una voce tra le altre.
“Kabaef! - esclamò - Questa è la voce di
Kabaef.”“Vieni. Lasciamo questo posto. Tra poco qui ci saranno le Fiamme del Neter-Khert.” disse Pthahotep prendendolo per mano e trascinandolo via assieme a Nsitaten, verso una collinetta.
“Ma quello è Kabaef, padre. So tutto di lui e di te. - Pthahotep lo guardò con un sorriso enigmatico. - E’ tuo nemico, padre. Aspetta. Fermati a guardarlo. Non godi per le sue disgrazie?”
“Godere? - fece la voce improvvisamente triste di suo padre - Non posso godere delle disgrazie altrui. Nemmeno di una persona che, come costui, si è meritato il proprio castigo. Venite. Andiamo via da qui.” Djoser dette ancora un’ultima occhiata all’Ombra maledetta di colui che aveva tentato di annientarlo.
Il suo aspetto non era più quello dell’uomo potente davanti a cui
la gente aveva tremato di terrore, grasso e grondante ricchezza e vizio da capo a piedi. Quella che stava osservando da lontano, era soltanto l’ombra, l’avanzo della Superbia e della Malvagità che avevano albergato un giorno nel corpo di quell’uomo. Era un’entità spaventevole e promiscua, in mezzo ad altre assolutamente uguali e simili: le vesti stracciate e lorde, i piedi nudi e sporchi, la pelle piagata dalla frusta. Neppure i condannati delle miniere del Sinai avevano un aspetto altrettanto terrificante. Dette loro le spalle e seguì suo padre.
“Ma... ma che cosa sta accadendo?” domandò Djoser guardando di sotto dall’alto della collinetta che con Pthahotep e Nsitaten aveva appena raggiunto.
C’erano quattro Guardiani occupati ad attizzare quattro immensi bracieri. Altissime colonne d’acqua bollente si alzarono vorticose dalla superficie, creando nel cielo una coltre così spessa e cupa da oscurare la tenebra stessa; grosse nuvole nere e gravide di pioggia rovente si rovesciarono sui disgraziati, di sotto. Qualcuno tentò di fuggire, ma i Demoni erano pronti a risospingerli avanti con pungoli e fruste.
“Per la Sacra Piuma di Maat! - esclamò il ragazzo, assai impressionato - Adesso capisco.”
“E’ la sorte dei malvagi e delle loro Ombre.” spiegò Pthahotep.
“La mia povera Shut - proruppe il ragazzo - Non sarà finita in mezzo a quelle Ombre Malvagie?”
“Non temere per la tua Ombra, figlio mio. Ti ho già detto che nulla le accadrà. Non temere per Quella e prosegui leggero lungo il tuo cammino.” lo rassicurò nuovamente suo padre, facendo seguire alle parole un lungo sospiro che allarmò Djoser e gli fece presagire qualcosa di spiacevole e doloroso.
“I malvagi sono andati, figlio mio. - disse Pthahotep - Ma anche noi dobbiamo andare, ma ci rivedremo ancora..”
“No! Non andate. Aspettate ancora. Vi prego...”
“Non possiamo fermarci oltre e neppure tu lo puoi. Ti prometto che ci rivedremo presto.”
“Quando?”
“Presto, figlio mio. Molto presto.” rispose Pthahotep, la cui figura cominciava ad impallidire e diventare trasparente.
“Che cosa significa? Che vuoi dire, padre?... Ma padre, io... Madre... Che cosa vi succede?”
Pthahotep e Nsitaten erano già scomparsi. Di loro non era rimasto che traccia di luminescenza e l’eco delle parole che fluttuavano nell’aria ancora scossa. Djoser, allora, cominciò ad aspirare quell’aria. Lo fece con l’avidità dell’assetato sorpreso senza acqua nel deserto e con la speranza di portare dentro sè un barlume dei due Esseri a lui più cari al mondo. Gli occhi erano pieni di lacrime e il dolore era cento volte più grande di quello provato alla loro morte. Ritrovarli era stato meraviglioso, ma perderli per la seconda volta era la cosa più triste al mondo.
Tornò a guardare di sotto, dove era scoppiato
il caos.
Vide alcuni di quegli sventurati sfuggiti ai
Sorveglianti correre lontano in cerca di salvezza e vide spaventose braccia ad
artiglio rincorrerli e trascinarli verso le fiamme. Li vide dibattersi e
contorcersi nel Fuoco. Restò a fissare quella scena, irrigidito dall’orrore e
fu allora che distinse chiaramente i quattro Sorveglianti: quattro Babbuini
dalle gigantesche proporzioni fisiche e dall’aspetto spaventevole. Con lunghe
pinze di bronzo alimentavano i bracieri entro cui il fuoco divampava con la
violenza di un incendio. Simili ad enormi uccellacci rossi, le fiamme si
libravano alte verso il cielo; il loro
crepitio era più assordante delle grida degli ippopotami nella stagione degli
accoppiamenti, lungo le anse del Nilo, nel Mondo-di-Sopra. Cominciava già a
nutrire qualche dubbio sulla possibilità di lasciare indenne quel posto, quando
si accorse dello stretto canale che, partendo dal centro del Lago, portava alle
Montagne- del-Tramonto ed alla Terza Arrit.brano tratto dal libro "DJOSER e lo Scettro di Anubi"
I libri sono disponibili presso le migliori librerie o la Editrice MONTECOVELLO oppure in rete:
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